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OTTOBRE 2015 - Copy & Paste


Quella mattina uno spensierato Lucio Fontana(*) attraversando la città di Varese, si presentò dal direttore del museo con una tela sottobraccio sulla quale aveva fatto un bel taglio verticale. Il direttore, senza riuscire a spiegarselo, rimase esterrefatto da quell’opera così insolita ed originale.


Decise immediatamente di esporla nella sala principale, cosicché tutta la clientela potesse ammirare quell’opera così semplice ma piena di attrattiva.


I curiosi e i clienti non tardarono ad arrivare e provarono nei confronti dell’opera d’arte una serie di emozioni inspiegabili, contrastanti eppure meravigliose. Non mancarono anche coloro che schernirono il lavoro, adducendo il fatto che tutti sarebbero stati in grado di tagliare una tela in quel modo.


A ragione di questa teoria, il giorno dopo un tale Annibale Pedrini si presentò al museo e pretese di essere anch’egli esposto. Il direttore del museo, che non era famoso per il suo pugno forte, pensò che forse avere due quadri uguali avrebbe portato più denaro nelle casse del museo. E così accadde. Per un po’ le persone continuarono ad ammirare un quadro e poi l’altro, cercando di coglierne le differenze, che pur si notavano in quella apparente somiglianza. Il terzo giorno, però, arrivò il signor Piernicola Vincenti che fece carte quarantotto nelle scale dell’edificio del museo, fino a quando il direttore non si piegò alla richiesta del signor Vincenti ed espose il suo quadro nella stessa sala del Fontana e del Pedrini.


A questo punto, le persone presenti cominciarono a guardare con sospetto le tre opere, ma la situazione non cambiò di molto, poiché le opere erano così simili, anche se evidentemente diverse, che si poteva comunque pensare di farle convivere nello stesso spazio.


Il vero disastro arrivò poi quando il dottor Faustini, il geometra Furlani, l’avvocato De Maveris e la vicesindaco Gisella Gisberti non decisero che la capacità di quel rimbecillito del Fontana, che tra l’altro non aveva neanche un titolo universitario, l’avevano anche loro, e che quindi il museo non poteva esimersi dall’ospitare i loro tagli su tela.


E così il pavido direttore del museo fece. Li ospitò tutti, senza distinzione, perché pensò che, se un quadro con uno squarcio aveva fatto alzare il fatturato di molto, molti quadri lo avrebbero fatto alzare di moltissimo.


Dunque, senza nessun ritegno, ospitò gli squarci del Papetti, del Fucchioni, della Siligardi, della Bajol, del Bortolazzi e di Pepo il Grigio. Nel giro di poche settimane, il museo straripò di tele e tele con squarci di ogni tipo: laterali, trasversali, verticali e ogivali, ma per la grande, imprevista produzione non fu più possibile associare ad ogni quadro il nome dell’effettivo esecutore. Ma la cosa non si fermò qui, perché tutti, nella splendente città di Varese, si sentirono in dovere di produrre il proprio squarcio su tela e di essere esposti. A quel punto la sala del museo non era più in grado di contenere neanche uno spillo, tanti erano i quadri esposti e ammassati uno sull’altro nella sala grande. Il tumulto e il malcontento di tutti i cittadini andavano a coprire la voce del direttore del museo, che implorava i suoi clienti di restare calmi e di non spingere per non rovinare il capolavoro del Fontana.


La questione, però, era che tra tutta quella confusione e con tutte quelle tele squarciate diventava veramente difficile riconoscere l’originale dalla copia, non tanto per la perfezione della riproduzione dell’opera, che a ben guardare manteneva sempre una purezza rispetto alle innumerevoli altre copie, ma perché in quel caos il valore delle cose era andato perduto e ciò a cui i clienti si erano più affezionati non era tanto la virtù stessa dell’opera, quanto la necessità di prevalere, intellettualmente parlando, rispetto al vicino di casa.


Fu inevitabile, quindi, che tutti iniziassero a urlare e berciare improperi, a bistrattare e maledire l’arte, poiché si sentivano ingannati per via del fatto che l’arte aveva portato scompiglio nelle loro vite e, per di più, non avrebbe mai contribuito ad un miglioramento della loro situazione economica.


In questo putiferio fatto di copie carbone di artisti e di quadri, un tipo dall’aria svampita aveva iniziato a tingere con dei colori a cera le pareti del museo, incurante di tutto quello che gli succedeva intorno. L’effetto fu quello di una magia. I clienti si calmarono, il direttore del museo si commosse e persino quel cuore di pietra del Lupacci provò un sentimento positivo. Il silenzio scese nella stanza, nel cortile, nelle strade, nel quartiere e in tutta la città di Varese, che si immobilizzò in uno stato di quiete totale, attenta ad osservare i movimenti, le proporzioni e il senso tutto nuovo di questa inaspettata opera.




(*)

ATTENZIONE: la storia di Lucio Fontana riportata in questa mail è frutto di fantasia. Non lo è invece il risultato che ne consegue.










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